Con Mario Polia e la collana Paideia da lui alacremente diretta, continuiamo il viaggio inaugurato con Exempla – a Roma e nell’Ellade – grazie al quale siamo stati ispirati dal mos maiorum e dalle gesta degli eroi dell’antichità classica; proseguito con L’etica del guerriero, con il quale abbiamo assaporato – nell’India aria – i versi della Bhagavad Gita e riscoperto la via del guerriero, il nostro cammino giunge, oggi, nell’antico nord d’Europa. Mario Polia riparte dai simboli del drago e dell’eroe delle saghe del nord, da Sigfrido a Beowulf: il drago rappresenta la brama di potere, mentre l’eroe simboleggia la parte più nobile e luminosa dell’animo umano, che è chiamata a combattere contro la prima. Il drago, spesso, custodisce gelosamente un tesoro, simbolo profondo del senso ultimo della battaglia condotta: immagine della battaglia interiore per la trasfigurazione della propria anima nelle sue possibilità superiori ed eroiche, combattendo e neutralizzando quelle inferiori, quali, innanzitutto, l’istinto di conservazione e la bramosia dell’impossessamento.
Il tentativo di ricercare nelle saghe germaniche le tracce di una ‘via dell’anima’ espone il ricercatore all’accusa di arbitrarietà da parte dell’accademismo storicista. Sono tuttavia convinto che, trattandosi d’una cultura in cui esistevano confraternite iniziatiche guerriere, il cui dio supremo Óðinn presenta caratteristiche nettamente sciamaniche, essendo la cultura germanica non immune dagli influssi di culture mediterranee presso le quali molteplici vie misteriche erano pienamente operative, il non tentare la ricerca sia un modo di procedere ancor più arbitrario.
Quindi, procedo enumerando una serie di elementi suscettibili di essere interpretati da una prospettiva ‘iniziatica’, meritevoli ‒ beninteso ‒ di ben altra trattazione.
l’entità mitica guardiana dell’oro è un rettile (ormr) in origine privo di ali. Nella pietra runica del secolo XI da Ramsundberget, Sodermanland (Svezia)
Fáfnir è un serpente di enormi dimensioni il cui corpo, curvato a formare un’ellisse, racchiude le scene più salienti del mito: Sigurðr che trafigge il ventre del drago con la spada; l’albero con gli uccelli fatidici; il destriero Grani; Sígurðr con il cuore di Fáfnir intento a leccarsi il dito ustionato; gli strumenti della fucina di Reginn e il corpo decapitato del fabbro-precettore dell’eroe.
Nell’ultima stanza della Völuspá il serpente Níðöggr è ‘vipera’ (naðr) e ‘drago volante: dreki fljúgandi’ che trasporta sulle sue oscure ali i morti di Hel e ‘vola (flygr)’ sul campo dell’ultima battaglia. Intorno all’anno Mille, il drago alato era dunque entrato a far parte della mitologia germanica.
Da dove venne importato? La questione esula dai propositi di queste umilissime note e risulta, comunque, di difficile soluzione. Ricordiamo in proposito che, in Cina, draghi alati cavalcati da maestri spirituali si aggiravano nei rarefatti cieli della mistica taoista e che, nell’antico Messico, il Serpente Piumato Quetzalcóatl, pur non svolgendo funzioni di drago, era un rettile (cóatl) munito di ali: le smeraldine ali dell’uccello quetzal. Dalla prospettiva del simbolo, si allude all’unione di due differenti nature: la terrestre (il serpente) e la celeste, simboleggiata dalle ali che permettono di trascendere la terra. A differenza di Niðöggr e del drago di Beowulf i quali si servono delle ali non per rimontare alle altezze ma per ampliare il campo d’azione della loro potenza distruttiva, Quetzalcóatl rappresenta l’archetipo celeste del re- sacerdote; alla sua funzione ‘pontificale’ rimanda il qualificativo ‘topiltzin’ che precede il nome.
In Grecia, l’uccisione di Pitone mostra con chiarezza la valenza ctonia del rettile cui si contrappone il principio solare rappresentato da Apollo-Helios e dalle sue auree frecce simbolo dei raggi solari.
Nelle saghe germaniche, il drago abita nei bui recessi del mondo ctonio; la battaglia tra l’eroe e il drago si svolge nella camera ipogea di un tumulo dove il tesoro è custodito. Il ricordo dell’antro tenebroso dimora del drago perdura nei secoli. Nella leggenda di S. Giorgio la grotta è scomparsa ma il nome greco del sauroctono ‒ ‘lavoratore della terra’ ‒ indica che la sede ‘naturale’ del drago si trova ‘in interiora terrae’: là essa va cercata, non altrove. Nell’interno della ‘terra’ occorre affrontare il drago.
La discesa nella grotta equivale, come nei Misteri di Eleusi, a un regressus ad uterum. L’uscita dall’oscurità della grotta alla luce equivale alla ‘rinascita’. Nell’utero della Madre Terra l’iniziando dovrà liberarsi dai vincoli che ostacolano il trascendimento dei limiti inerenti alla natura terrestre: a Eleusi, gli iniziandi venivano incatenati in un antro oscuro.
La conoscenza ‒ che è esperienza diretta, non mediata come insegna il latino ‘săpēre’: ‘conoscere’ e ‘assaporare’ e il greco ‘(v) oîda, so’, da ‘(v)ideîn vedere’ ‒ renderà l’iniziato «figlio della Terra greve e del Cielo stellante». La ‘grotta’, dunque, per diventare utero di rinascita deve fungere da tomba in cui giacciono le spoglie dell’uomo a una sola dimensione, il «figlio della Terra greve» orfano del Padre. L’oscurità che regna nella grotta corrisponde allo stato di ignoranza, all’incapacità di vedere- sapere: la ‘non-visione’ espressa dal sanscrito ‘avidyā’ e dal greco ‘Aidēs’ da *a-veid-: ‘non vedere’ / ‘non sapere’.
Nei contesti iniziatici, la grotta è simbolo del cuore ‒ krypta – kárdion ‒ a indicare che il combattimento col drago avviene ‘in interiora cordis’. Nell’iniziato la cripta del cuore è il luogo in cui si manifesta il divino: nel sacro antro di Delfi Apollo possiede e ispira la vaticinante sibilla. Nei Veda, Agni, pontefice cosmico, Fuoco quintessenziale del cosmo e anima del fuoco del sacrificio, vede la luce in una grotta; in una grotta nasce Mithra il cui culto era celebrato in cavità sotterranee naturali o artificiali; in una grotta vede la luce Cristo.
Tornando ai miti germanici, in abissali recessi sono incatenati i principi del male: il lupo Fenrir e il malvagio Loki. Ancora più in basso, le invalicabili mura e i cancelli della fortezza di Hel imprigionano le larve dei morti sotto l’oscura coltre delle nebbie di Niflheimr. Spetta agli dèi garanti dell’ordine cosmico tenere sotto controllo tali potenze dissolutrici. All’uomo spetta il compito di ordinare il proprio microcosmo vincendo il ‘drago’: il cieco istinto di conservazione; la violenza sorda alla giustizia; l’attaccamento incondizionato ai piaceri; la ricerca primaria del profitto personale che impediscono quell’‘agire-senza-agire’ ‒ e senza essere agiti ‒ che è la colonna portante dell’etica aria.
Lo sguardo del drago che irretisce la mente, come quello della Gorgone Medusa che pietrifica, sono metafore del potere inibitorio esercitato dall’istinto e dalle passioni sulla ‘vis’ che, non creata da uomo, anima l’umana natura e spinge a evadere dall’antro per tornare «a riveder le stelle». Potenza di resurrezione, ‘nostalgia delle origini’, tema caro a Platone e alla sua metafisica del ‘ricordo’.
Nel simbolismo geometrico, la natura umana è rappresentata da un triangolo col vertice diretto verso l’alto al cui interno è inscritto un triangolo di colore oscuro col vertice in basso: capovolgerlo, rettificarlo (rectum facere) è l’impresa da compiere per operare il ricongiungimento delle due nature, la urania e la terrestre. A ciò allude l’espressione alchemica «Visita interiora terrae rectificando», la quale continua «et invenies occultum lapidem: troverai la pietra nascosta», la ‘pietra filosofale’ che ha il potere di trasmutare il vile piombo dell’ignoranza nell’oro incorruttibile della sapienza. La morte in immortalità.
Riguardo alla vis che propizia la rinascita, nessuna definizione risulta più appropriata dell’avverbio con cui, nella versione greca del Vangelo di Giovanni, Cristo dichiara a Nicodemo l’origine non-umana di tale potenza rigeneratrice: ‘anōthen’ che, allo stesso tempo, significa ‘di nuovo e dall’alto’. La carne, infatti, non può propiziare una rinascita che avviene oltre la carne.